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Rolex Sydney-Hobart, Marco Carpinello racconta la vittoria di Alive Rolex Sydney-Hobart, Marco Carpinello racconta la vittoria di Alive
Esistesse un corrispettivo velico dei Big Five, la Rolex Sydney Hobart ne farebbe parte di certo. Forte di quel fascino che hanno gli eventi... Rolex Sydney-Hobart, Marco Carpinello racconta la vittoria di Alive

Hobart – Esistesse un corrispettivo velico dei Big Five, la Rolex Sydney Hobart ne farebbe parte di certo. Forte di quel fascino che hanno gli eventi targati Down Under, unica perché inizia il giorno di Santo Stefano da una Sydney che Santa Claus lo festeggia in costume da bagno, competitiva perché frequentata dai migliori tra i migliori e selettiva perché nello Stretto di Bass tutto puoi fare tranne che scherzare, questa lunga discesa di 630 miglia dall’Australia alla Tasmania è così iconica che conquistarla in overall equivale al conseguimento di un master. Un titolo che, a oggi, in Italia, vantano in due: Francesco Mongelli, navigatore del VOR 70 Giacomo, vincitore nel 2016, e Marco Carpinello (aka Il Carpy), prodiere del Reichel Pugh 66 Alive, trionfatore dell’edizione che sta registrando gli ultimi arrivi proprio in queste ore.

Sono da poco passate le 7 del mattino del 31 dicembre quando un vocale dell’appena incoronato “Re d’Australia” ci comunica il suo rientro in Italia e la sua disponibilità a raccontare a Zerogradinord l’impresa nel dettaglio ma “…prima di tutto, sento forte il desiderio di dedicare questa vittoria, la più importante della mia carriera agonistica, a Palletta e Ioio, i miei nipotini: ho pensato a loro sin dall’attimo seguente la mezz’ora che mi è servita per realizzare che nessuno avrebbe potuto fare meglio di noi e dal momento in cui ho iniziato a piangere come un bambino, tra gioia e incredulità”.

D: Iniziamo dal principio: come sei arrivato a bordo di Alive, il Reichel Pugh 66 di Philip Turner?
R: Come spesso capita nel nostro ambiente è stata una casualità: uno dei ragazzi che ci ha aiutato a preparare la barca sulla quale ho fatto la mia prima Sydney-Hobart nel 2016 già navigava su Alive. Alla fine del 2017 hanno avuto necessità di sostituire il prodiere che si era infortunato e ricordo che volai di tutta fretta in Thailandia per una regata: è stato il classico colpo di fulmnine, dato che da quel momento sono diventato parte integrante del team.

D: Che mansioni ti sono affidate?
R: Durante la navigazione mi occupo della prua, tra una regata e l’altra, insieme a un altro membro del team, sono responsabile dell’attrezzatura di coperta e devo dire che nel corso dell’ultima stagione abbiamo fatto molti miglioramenti. Gli ultimi add on li abbiamo spacchettati proprio in occasione della Sydney-Hobart di quest’anno: gli avvolgitori delle vele di prua non erano più affidabili e ho proposto di puntare sui prodotti di Ubi Maior Italia – Attrezzatura di coperta, quindi a bordo non ero l’unico che portava l’etichetta Made in Italy. Tra le altre cose, Fabio De Simoni ci ha garantito un’ottima assistenza, riuscendo a consegnare il materiale in tempi record.

D: A certi livelli si parte sempre con la determinazione necessaria a vincere: era una speranza o eravate coscienti di avere i numeri dalla vostra?
R: Onestamente non posso dire che siamo partiti per vincerla. L’obiettivo dichiarato era fare la regata al meglio, ovvero presentarci sulla linea di partenza con la barca in ordine e l’equipaggio più competitivo possibile. Ora, sarà che i miei ricordi sono offuscati dal senno del poi, ma durante il viaggio di andata sentivo una sensazione strana, hai presente quando ti senti che qualcosa di bello potrebbe accadere? Una sensazione che ho messo a tacere quando ho visto le previsioni meteo della vigilia: la situazione sembrava favorire le barche piccole.

D: Che cosa vi aspettavate e cosa avete trovate dal punto di vista meteo?
R: I bollettini annunciavano una partenza con 20 nodi dai quadranti settentrionali in forte aumento durante la notte per poi arrivare alla sera del secondo giorno con due alte pressioni che ci aspettavano nello Stretto di Bass. Il passaggio di quel fronte, sulla carta, avrebbe dovuto rallentarci non poco, permettendo ai piccoli di piombarci addosso e annullare lo svantaggio nella classifica in tempo compensato. La situazione non si è rivelata troppo diversa, tanto che nel corso della prima notte abbiamo visto fino a 38 nodi toccando punte di velocità prossime ai 30 mentre navigavamo a tutta in VMG down, ma la chiave di volta è stata che siamo riusciti a sfuggire dalla transizione molto rapidamente. Grande merito va riconosciuto all’afterguard che, guidato dal tattico Tim Somerville, ha preso decisioni rapide ed efficaci. Pur non essendo stata la più epica dal punto di vista meteo, posso garantirti che è stata un’edizione spossante: solo nella fase di transizione, con il vento che saltava da 8 a 30 nodi nel giro di un niente, ho contato almeno diciotto cambi di vele. Con una situazione del genere anche gestire i turni è stato molto complicato: le prime diciotto ore sono stato sempre in coperta.

D: Com’è stato l’approccio finale?
R: Molto tattico. L’atterraggio non è stato dei migliori, dato che ci siamo ritrovati in una posizione troppo bassa, sotto il controllo di Wild Oats X, barca gemella della nostra che in questa regata era affidata all’equipaggio femminile dell’ultima Volvo Ocean Race. In pratica con loro ce la giocavamo in tempo reale. Anche in questo caso Somerville ha fatto la differenza: in un tratto di reaching che dovevamo fare per passare da un capo all’altro ha notato che le ragazze navigavano un pelo più alte di noi ha deciso di orzare, facendoci preparare Code Zero e staysail. Giocare di anticipo è stata la mossa che ci ha permesso di portare a termine la manovra in modo perfetto, mentre su Wild Oats X, per reagire rapidamente alla nostra mossa, qualcosa è andato storto e hanno perso almeno un’ora per riprendere il controllo del Code Zero che, durante l’issata, si era srotolato nella parte alta. A quel punto abbiamo amministrato: la fase finale si è rivelata una lunga impoppata sin dentro al fiume sul quale si affaccia Hobart.

D: La tensione sarà comunque stata palpabile a bordo…
R: Diciamo che ci è improvvisamente tornato in mente il campanilismo che storicamente separa il pozzetto dalla prua: a ogni strambata minacciavo chiunque delle peggiori conseguenze in caso di errori, chiudendo ogni anatema con l’adagio ‘quando ci ricapita più???’.

D: …e poi, la vittoria…
R: Un’emozione incredibile. Mi ritengo molto fortunato perché nella mia carriera ho vinto tanto, ma questo successo mi ha riempito di orgoglio, gioia, soddisfazione. Non è un mistero e l’ho detto anche in apertura: una volta uscita l’ufficialità della vittoria ho iniziato a piangere e non mi sono fermato per almeno un quarto d’ora. Il telefonino è stato inondato dai messaggi di centinaia di amici e colleghi. Insomma, ho capito di averla combinata grossa, come ho avuto modo di dire con mio padre in una delle prime telefonate post successo.

D: Beh, del resto non capita a tutti di vincere la Rolex Sydney-Hobart: sei in un club piuttosto ristretto.
R: La maestosità di questa regata la capisci solo se la vivi. Certo, è la prova di altura che sogni di fare sin da bambino, quelle che leggi nei libri, ma quando sei lì capisci che per gli australiani è qualcosa che va oltre la vela: è qualcosa di trascendentale, è quasi una religione. Impossibile dimenticare l’uscita dalla baia di Sydney, il passaggio davanti all’Opera House e gli Organ Pipes che ti comunicano l’imminente approccio alla Tasmania. Si tratta di un’infinita serie di emozioni. Pensa che una volta iniziati i festeggiamenti non c’è stato locale di Hobart dove non ci abbiano offerto da bere, non ci abbiano osannato: da un certo punto di vista è stato più complicato sopravvivere ai festeggiamenti che raggiungere Hobart.

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